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MA I DSA…ESISTONO O NON ESISTONO?

Il titolo di quest’articolo è appositamente provocatorio e ha l’obiettivo di porre luce sulle polemiche che da qualche tempo si sono accese sulla questione relativa alle diagnosi dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA).
In molti sostengono che vengono effettuate troppe diagnosi di dislessia e che spesso queste siano del tutto inventate, in particolare si sostiene che ci sia molta confusione tra disturbo e difficoltà scolastica e che per questo i genitori scelgono di diagnosticare i propri figli per agevolarli e spianargli la strada. Per comprendere meglio vogliamo proporvi uno stralcio di un articolo de Il Fatto Quotidiano dello scorso Marzo:
“E’ boom di dislessici, discalculici, disgrafici e disortografici. In Italia il numero di studenti con qualche disturbo specifico dell’apprendimento aumenta: nell’anno scolastico 2016/2017 erano 254mila pari al 2,9% degli icritti. Un dato che va confrontato con quello dell’anno precedente quando il numero dei DSA si fermava a 187mila, il 2,1& degli alunni. Si conferma quindi il forte trend di crescita visto che solo sette anni fa erano solo lo 0,7% del totale della popolazione scolastica.”
Di fronte a queste affermazioni è bene interrogarsi. Intanto ci sono circa 8,8 milioni di studenti in Italia e dunque la percentuale riportata ridimensiona di molto i numeri sopra citati e in secondo luogo, è quantomeno inopportuno paragonare un dato del 2018 rispetto al 2011, quando la legge 170 sulla dislessia era appena stata scritta. Tale legge, entrata in vigore nel 2010, ha introdotto che la messa in atto di misure didattiche di supporto necessarie agli alunni con DSA vada formalizzata a seguito della presentazione di una certificazione. Appare dunque comprensibile che le certificazioni siano aumentate dal 2010 ad oggi.
Le polemiche riguardanti quindi le “false diagnosi” non fanno altro che minare le basi dell’alleanza tra scuola, famiglia e servizi sanitari che invece risulta di grande importanza per l’efficacia della costruzione di un piano didattico efficace per l’alunno con difficoltà. Il percorso di valutazione del profilo di funzionamento e la diagnosi eventuale che da questo deriva, fanno parte di un percorso complesso e che fa riferimento a criteri diagnostici ben definiti a livello scientifico, che non lasciano spazio a “confusione”.
Dopo aver dunque chiarito questo aspetto proviamo a capire che cosa sono e in cosa consistono i Disturbi dell’apprendimento. Secondo il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali 5 (DSM 5, 2015) i disturbi specifici di apprendimento sono caratterizzati dalla persistente difficoltà di apprendimento delle abilità scolastiche chiave per almeno sei mesi tra lettura delle parole lenta o imprecisa e faticosa, difficoltà nella comprensione di significato di ciò che viene letto, difficoltà nello spelling, difficoltà con l’espressione scritta, difficoltà nel padroneggiare il concetto di numero, i dati numerici o il calcolo, difficoltà nel ragionamento matematico. Le abilità scolastiche sono al di sotto di quelle attese per età e causano interferenza con il rendimento scolastico e lavorativo.
Come si può quindi immaginare il problema non è semplice e ha una lunga evoluzione, modificandosi con il passare degli anni e del ciclo scolastico, compromettendo anche i risvolti lavorativi in età adulta.
A rendere il tutto più complicato è la mancanza di chiarezza e di consapevolezza, infatti, molti di questi ragazzi non hanno una diagnosi. Il tutto accentua l’equivoco sulla pigrizia, svogliatezza e mancanza di impegno e di attenzione che si perpetuano nel tempo con i loro effetti negativi.
Samuel Orton, medico dei primi anni del ‘900, osservò che i problemi emotivi in questi ragazzi si manifestano dopo l’inizio delle attività scolastiche e non prima; questa osservazione fondamentale esclude la genesi psicologica dei disturbi di apprendimento. Per decenni si è ritenuto la dislessia un problema puramente psicologico, confondendo la causa con l’effetto. Dato che il disturbo, in forme più o meno nascoste e compensate può persistere per tutta la vita continuando a essere fonte di stress, le ricadute sul benessere psicologico si possono trovare a qualsiasi età, in forme assai diverse dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Per questo motivo è di fondamentale importanza rivolgersi in tempo a dei professionisti, per non far sì che il sentimento di colpa e vergogna portino il bambino e/o ragazzo a costruirsi un’idea errata delle proprie capacità e andando incontro ad insuccessi scolastici, potrebbero sviluppare demotivazione e scarsa autostima in relazione a vissuti di inadeguatezza, incompetenza, frustrazione, rabbia, sofferenza.
In conclusione possiamo dunque affermare che: sì, i DSA esistono ed è fondamentale informarsi per prevenire.

maternità

LA DEPRESSIONE POST PARTUM: LEGITTIMARE LA FATICA DI DIVENTARE MAMMA

La cosa interessante per me, parlando di maternità o meglio sentendone parlare, è la varietà dei racconti. Ogni donna, parlando della propria maternità e della nascita dei propri figli porta una narrazione unica, singolare: dolore e piacere, tenerezza e terrore, sollievo e ansia, amore e odio.
Eppure è una storia che unisce tante donne, se siamo qui è grazie a queste diverse narrazioni, grazie alle madri che ci hanno portato al mondo.
“Le madri che ci hanno portato al mondo”, mentre scrivo questa frase mi immagino una madre traghettatrice, una guida sicura, un mezzo, una custode. Chi traghetta lo fa per lasciare sulla riva qualcuno, gli da una piccola spinta che basta per iniziare un lungo viaggio, un viaggio di scoperta, un nuovo inizio.
Il percorso della madre traghettatrice è un percorso lungo nove mesi, può però
trovare terra prima del previsto e dare la sua spinta inaspettata con anticipo,
oppure può trovare una terra non così accogliente, aspettare quindi di dare la spinta sperando che qualcuno prenda la sua nuova vita dalla riva, convincendola che ciò che troverà sarà sicuro, invitante.
La traversata dei nove mesi.
La traversata della gravidanza.
La traversata della maternità.
Perchè la traversata è già maternità, traghettare dentro sé una nuova vita significa già essere madri, cominciare a pensare di esserlo, sentire cosa significa esserlo per sé ed anche cosa significa esserlo per gli altri, ma non solo per il proprio bambino, anche per la società che lo accoglierà.
E quindi cosa significa per la società diventare madri? Quelli che aspettano sulla riva, che guardano mentre la madre dà quella spinta per dare inizio ad una nuova vita. Quelli sulla riva aspettano e guardano, aspettano e si aspettano.
Si aspettano che la madre dopo la traversata dia la spinta con gioia, che iniziata la nuova vita la madre ne sia partecipe con gioia, che accolga le sue fatiche con gioia e che sappia affrontarle… con altrettanta gioia.
Quanto pesano queste aspettative sulla madre?
Quanto sono queste stesse aspettative a diventare automaticamente aspettative della madre verso se stessa?
Gli altri mi osservano e mi aspettano per celebrare insieme la mia gioia.
E se non fosse gioia istantanea la mia? E se non provassi gioia per i primi sei mesi, se proprio non riuscissi a provarla?
Se provassi solo terrore e ansia?
I racconti di maternità che ho ascoltato o che ho letto sono diversissimi tra di loro, traghettare per ogni donna assume un significato differente, dare la spinta affinché una vita si stacchi da sé viene vissuto in modo diverso, alcune vorrebbero continuare la traversata, altre non vedono l’ora di far volare una nuova farfalla in aria. Esiste un giusto e uno sbagliato?
No, esiste la maternità per ogni donna, diversa per ogni donna.
Esiste un giusto e uno sbagliato nelle aspettative verso una madre? Questo forse sì, perchè solo lei, traghettando, sarà in ascolto del suo corpo e della sua anima, solo lei traghettando sentirà un altro corpo ed un’altra anima crescere per essere lasciato sulle rive. E corpo e anima non seguono percorsi prestabiliti, sicuramente la pancia all’ottavo mese sarà pancione, sicuramente il nuovo corpicino all’ottavo mese farà mezza capriola in più, ma quello che una madre sente è personale, è singolare, è speciale.
La Depressione post-partum è una condizione dolorosa, faticosa e spesso drammatica, ma è anche superabile, dalla depressione post-partum si esce, si esce madri diverse e più consapevoli, si esce padri diversi e più consapevoli.
E la società dovrebbe uscirne società diversa e meno giudicante, meno spettatrice, più coinvolta, più comprensiva.
Quando ascolto una madre raccontare della sua gravidanza, del suo puerperio e dei primi mesi di vita del suo bambino come momenti speciali, felicissimi e pieni di gioia in primis gioisco per quanto ascolto, ma poi penso alla sua difficoltà nel comprendere dei sentimenti opposti a quelli che sta provando. E allora comprendo tutte quelle aspettative e l’ansia nel non riuscire a sposare quelle aspettative, e la disperazione del sentirsi diversi da tutti, sbagliati, a-normali.
La depressione post-partum colpisce dal 10 al 12% delle madri, assume forme molto differenti ed anche le tempistiche di risoluzione sono soggettive.
Una donna su dieci nel spingere la sua nuova vita a riva, dopo averla traghettata per nove mesi, sprofonda nella tristezza e in una forma di fatica che le sembra insuperabile.
Legittimare i sentimenti di una madre, riconoscendo la loro intensità significa non far sentire una madre osservata sulla riva come se tutte le sue mosse dovessero essere perfette, significa dirle “sei libera di provare tutti i tuoi sentimenti, questo non ti rende una cattiva madre”, significa starle vicino ed aiutarla riconoscendo la sua legittima difficoltà.

adolescenti

ADOLESCENZA, AIUTO!

Se ci fermiamo a riflettere sul termine “adolescenza”, facilmente ci verranno in mente una serie di parole e sensazioni molto diverse, persino opposte tra loro. Questo rende già evidente come questo particolare momento della vita sia difficile da definire in modo univoco.
L’età adolescenziale rappresenta perfettamente quella che viene chiamata “crisi evolutiva endogena”, ovvero una fisiologica fase di difficoltà che attraversa, o ha attraversato, la vita di tutti noi.
Ci capita spesso di pensare agli adolescenti come individui in preda alla cosiddetta “tempesta ormonale”, ma nello specifico di cosa si tratta? La scienza ci dice che esiste sì una produzione particolare di alcuni ormoni in questo momento della vita, ma questo avviene in concomitanza ad una scarsa maturazione di alcune particolari aree del cervello, che assolvono a compiti cognitivi specifici.
In adolescenza si verifica infatti una “risistemazione” del cervello, scientificamente chiamata “potatura”, caratterizzata da un rimaneggiamento delle sinapsi, per cui nuovi collegamenti tra neuroni si formano e quelli meno utilizzati scompaiono. La potatura avviene nel cervello delle ragazze intorno agli 11 anni, in quello dei ragazzi intorno ai 12 anni e mezzo. Il luogo in cui la potatura si compie è la corteccia prefrontale: questa è chiamata “area del secondo pensiero sobrio” e assolve a compiti cognitivi di alto livello, quali prendere decisioni, programmare, inibire comportamenti inadeguati; è inoltre coinvolta nell’interazione sociale e nell’autoconsapevolezza.
E quali sono, nello specifico, gli ormoni coinvolti nei mutamenti
cerebrali dei ragazzi?
Un primo esempio ci viene fornito dalla dopamina, ormone coinvolto nel circuito cerebrale piacere-gratificazione: in poche parole, se incontriamo qualcosa che ci fa stare bene la sua produzione aumenta, cosa che avviene anche quando ci troviamo di fronte a rischi e novità.
Nel cervello adolescente i livelli di dopamina sono mediamente più bassi rispetto agli adulti. Capiamo quindi come i ragazzi siano, come naturalmente, spinti alla ricerca di tutto ciò che non è conosciuto e, in alcuni casi, non totalmente sicuro.
Un altro ormone che gioca un ruolo da protagonista durante gli anni dell’adolescenza è la melatonina. Abbiamo presente come i ritmi sonno/veglia dei ragazzi siano decisamente diversi da quelli degli adulti: i giovani infatti tendono a ritardare molto l’orario in cui vanno a dormire, prolungando il loro sonno fino alla tarda mattinata. La melatonina è coinvolta in questo meccanismo, poiché viene secreta nel momento in cui è ora di andare a dormire e, nel cervello degli adolescenti, questa secrezione avviene fisiologicamente nelle ore più tarde e prosegue lungo le ore della mattina. Spesso, quindi, non è sufficiente limitarsi a chiedere ai ragazzi di cercare di non coricarsi troppo tardi la sera.
Questa consapevolezza ha spinto alcuni paesi a posticipare l’orario di inizio delle lezioni scolastiche, per far sì che gli studenti riescano a dormire di più e siano quindi più attenti e produttivi. Diversi studi hanno infatti dimostrato come i giovani in fase di sviluppo cerebrale e ormonale che dormono regolarmente almeno otto ore per notte apprendono meglio e sono meno inclini a comportamenti violenti. Più a lungo i giovani dormono, inoltre, più hanno possibilità di assorbire e consolidare le informazioni ricevute durante la giornata, processo che avviene durante le fasi REM del sonno.
Gli ormoni, però, sebbene giochino in prima linea in questa delicata fase della vita, non sono gli unici attori coinvolti e la loro “tempesta” non implica che i ragazzi siano incapaci di essere prudenti e responsabili. Il dibattito natura vs. cultura è più che mai vivo riguardo a questo argomento e un ruolo determinante per la crescita dei ragazzi è svolto da chi si prende cura di loro, a qualsiasi titolo.
Benché la corteccia frontale presenti ancora aree di immaturità, i genitori e coloro che hanno a che fare con i giovani sono depositari di un enorme potere relazionale, il quale aiuta i ragazzi e li accompagna in questo viaggio burrascoso.
E’ importante pensare al cervello adolescente come “vulnerabile” non solo in senso negativo, ma come particolarmente recettivo alle esperienze positive, alla possibilità di sviluppare un pensiero critico e allo stesso tempo creativo, alla ricerca di stimoli e novità.
Non è quindi proficuo pensare all’adolescenza unicamente come ad una fase da “sopportare”, da parte della famiglia, con una buona dose di pazienza. Si tratta di un’età cruciale, fondamentale per poter esprimere tutte le potenzialità che stanno alla base di una vita adulta ricca e soddisfacente. Ciò significa, per chi vive o lavora con gli adolescenti, provare a comprendere che cosa per loro significhi questo momento della vita e, perché no, ricordarci com’era stato per noi. Questa posizione può sicuramente aiutarci nello stare vicino ai ragazzi, nel dare loro amore, nel permettere loro di condividere cosa pensano e come si sentono.
E’ frequente che, soprattutto i genitori di adolescenti, si sentano come spettatori passivi ed impotenti di fronte alle trasformazioni in atto. Ciò che serve è, invece, sensibilità e capacità nel rapportarsi con tutte le diverse immagini che i nostri giovani ci propongono, senza sostituirci a loro né frenandoli, bensì incoraggiandoli continuamente.

L’adolescenza potrebbe quindi essere vista come una casa da ristrutturare: le fondamenta rimangono sempre le stesse, ma alcune parti che non vengono più utilizzate vanno demolite, altre ampliate, altre ammodernate. Questo processo è lungo, difficoltoso, pieno di contrattempi, ostacoli, interruzioni e ritardi, ma permette di arrivare alla costruzione definitiva di quello che, per ognuno di noi, è l’ambiente di vita ideale.

BIBLIOGRAFIA:
• Carskadon MA. Sleep’s effects on cognition and learning in adolescence. Prog Brain Res. 2011
• McKnight-Eily LR, Eaton DK, Lowry R, Croft JB, Presley-Cantrell L, Perry GS. Relationships between hours of sleep and health-risk behaviors in US adolescent students. Prev Med. 2011
• Pellai A., Tamborini B. L’età dello tsunami. Come sopravvivere ad un figlio adolescente. DeAgostini, 2017
• Scaparro F., Pietropolli Charmet G., Belletà: adolescenza temuta, adolescenza sognata. Bollati Boringhieri, 1993
• Zattoni M., Genitori nella tempesta. San Paolo, 2005

dog articolo

IL LINGUAGGIO SEGRETO DEL CANE

Un cane è sempre felice quando scodinzola? Che messaggio comunica quando si avvicina agli altri con un movimento a curva? E quando stende le zampe anteriori con le posteriori ritte agitando la coda?
Gli animali comunicano per la maggiore con il linguaggio del corpo e comprendono facilmente il nostro linguaggio non verbale e para verbale.
Ciò significa che rivolgendoci a loro con pochi ma efficaci vocalizzi e segnali della mano possiamo raggiungere ottimi obiettivi di collaborazione. Al cane non manca la parola, siamo noi a non capirlo.
Tante competenze cinofile sono accessibili da chiunque possa esserne interessato e particolare attenzione va riservata ai segnali calmanti. Il cane è un animale pacifico, il suo obiettivo è quello di evitare l’aggressione o il nostro tono minaccioso e tali segnali hanno proprio la funzione di prevenire questi comportamenti (Turid Rugaas, L’intesa con il cane: I segnali calmanti).
Mostrare la mano a palmo aperto è uno dei segnali universali con funzione di calmare il cane e chiedergli di attendere. Non è necessario aggiungere parole o usare un tono della voce alto, il gesto è efficace di per sé.
Il movimento a curva nell’avvicinarsi funziona sia tra cani che tra uomo-cane, indica un avvicinamento pacifico talvolta accompagnato dall’annusare il suolo o dal leccarlo (questo solo tra cani ci si augura!) per sottolineare le intenzioni positive.
Ricordiamoci che il cane ha bisogno di annusare per avere un quadro chiaro di dove si trova e per capire la presenza di altri animali, è un bisogno sociale come per noi lo è leggere il quotidiano.
Un ottimo segnale che può farci pensare ad una buona interazione tra quadrupedi è l’invito al gioco, che prevede le zampe anteriori abbassate, la parte posteriore ben ritta e la coda agitata dando il via ad annusate di conoscenza ed inseguimenti. I cani lo fanno anche con noi e con questo movimento ci comunicano senza troppi giri di parole “Giochiamo!”. La leccata del cane che i proprietari e amici conoscono bene riveste molti significati, viene usata per indicare amicizia, richiesta di protezione e vicinanza ma anche per pacificare. Sta alla nostra attenzione infatti capire quando il cane lecca perché si trova in una situazione critica e vuole lanciarci un segnale di calma.
Il cane è in grado di interpretare il nostro linguaggio del corpo sia quando vogliamo manifestare compiacimento sia quando manifestiamo disappunto.
Per pacificarci il cane assume una postura raccolta, testa reclinata, schiena curva e coda bassa. Lo sguardo non è diretto sia per la vergogna che per non comunicare intenzioni di sfida. Davanti a questi segnali è necessario calmarsi per non renderli inefficaci, altrimenti penserà di non essere mai in grado di rasserenare la situazione conflittuale (Marchesini e Cuvelier, Dizionario Bilingue italiano-cane).
Per noi non è sempre così semplice comunicare in questo modo perché parliamo tanto, gesticoliamo tanto, urliamo tanto e mettiamo spesso in una stessa frase messaggi contrastanti. Imparare i corretti segnali del corpo garantisce una comunicazione efficace per un’ottima intesa uomo-animale.

psicologia positiva

Parliamo di Psicologia Positiva…

Tradizionalmente, si pensa alla Psicologia quale scienza che si occupa di come funzioniamo e di intervenire in situazioni di “rottura”, per ripristinare un equilibrio perduto. Senz’altro è un aspetto fondamentale di questa disciplina, ma rischia di mettere in secondo piano “l’altra metà del cielo”, ovvero come vivono, scelgono, sentono, si comportano, e pensano le persone che hanno la percezione di una buona qualità di vita.

Era il 1998 quando il presidente dell’American Psychological Association Martin Seligman propose di recuperare le origini della psicologia, chiedendo agli psicologi di orientare i loro sforzi non solo alla cura delle patologie mentali, ma anche al rendere la vita di tutti più produttiva e appagante. Per farlo sarebbe stato necessario potenziare le risorse delle persone ed aiutarle a crescere, adottando una visione di fiducia nei confronti dell’individuo.

In realtà, il movimento della Psicologia Positiva affonda le sue radici già nelle teorie di Carl Rogers che, negli anni ’40, sviluppò un approccio centrato sulle capacità di autorealizzazione e sul pieno funzionamento della persona, superando così la tradizionale concettualizzazione medica che vedeva la sanità e la malattia come due dimensioni dicotomiche. Anche Abraham Maslow, nel 1954, con la sua ormai celebre “piramide dei bisogni” ha richiamato la necessità di occuparsi dell’individuo sano come oggetto della psicologia.

Il pensiero di Seligman può essere meglio compreso pensando a come l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la Salute, ovvero “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non la semplice assenza di malattia o infermità”. Questa visione sottolinea come tutti possediamo delle capacità costruttive, grazie alle quali migliorare e sviluppare la nostra salute e autostima.

Cosa significa “stare bene”?

Quindi, cosa significa “stare bene”? Ognuno di noi risponderebbe in modo diverso… e tutte le risposte sarebbero corrette! La qualità della vita ed il benessere sono infatti concetti relativi: ogni individuo ne elabora un’interpretazione personale, basandosi sulla propria salute fisica, il ruolo sociale e lavorativo ricoperto, la qualità delle relazioni affettive, la consapevolezza che ha di sé. E’ importante tenere a mente ciò che una lettura di questo tipo comporta: immaginiamo una persona economicamente benestante, con un ruolo sociale importante ma con una rete affettiva poco soddisfacente. Possiamo parlare, in questo caso, di “benessere”?

Alcuni direbbero di sì, ritenendo prioritarie la posizione lavorativa ed economica; altri sosterrebbero il contrario, ritenendo più pregnante l’aspetto relazionale. Addirittura la stessa persona, in momenti diversi della propria vita, potrebbe dare una lettura differente. Questo perché il concetto di “benessere” è dinamico e in continuo mutamento. Ricordiamoci che anche porsi obiettivi, piccoli o grandi che siano, è un atto volto a migliorare e a costruirci un’esistenza per noi soddisfacente.

Ma come si realizza questo approccio nella pratica? Privilegiando interventi finalizzati al potenziamento delle risorse presenti e alla riscoperta di quelle che ancora non sentiamo appartenerci, arricchendo così la Psicologia di una nuova dimensione talvolta troppo trascurata.